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Boris Vallejo
The Mountain Beast

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Eunice
Una mantide dagli occhi di gatta
Capitolo Terzo

Era turbata, per la prima volta in tutta la sua vita si sentiva insicura, la sera prima lo aveva attirato in camera, sembrava tutto così facile, non doveva far altro che lasciar fare al suo istinto, eppure mentre lo guardava accostarsi a lei incerto e timoroso, lei avvertì qualcosa dentro di sè, un sentimento sconosciuto ed estraneo, qualcosa che non riusciva a comprendere nella sua interezza, lui si perdeva nei suoi occhi, era inerme di fronte a lei, eppure non riusciva a trovare la determinazione necessaria.
La sua esitazione era stata determinante, il tempo si era come cristallizzato, erano rimasti a guardarsi negli occhi per un periodo di tempo interminabile, non poteva nemmeno immaginare quanto, forse ore, forse minuti solamente, lui era annegato nel verde fosforescente dei suoi occhi ed a poco a poco si era accasciato sul letto privo di sensi.
Era rimasta a guardarlo per tutto il resto della notte, lui era solo un estraneo, eppure era lui che aveva intravisto a Città del Messico nel corso di una strana estasi mistica, non aveva alcun dubbio, aveva dipinto per anni quel volto, senza aver mai incontrato prima di allora la persona della visione, ora lui era là ai suoi piedi e lei non riusciva a scatenare il suo istinto.

Alle prime luci dell'alba si era recata in salotto ed aveva sollevato il drappo nero del suo ultimo quadro, lo osservò rabbrividendo, era difficile pensare di non poter avere una vita normale, del resto sapeva che era ineluttabile una fine tragica, piena di ira massacrò la tela con i colori e poi la fece a pezzi con il raschietto, rimase a guardare ansimante poi rassegnata si ritirò in attesa nello studiolo pieno di antiche maschere cerimoniali polinesiane a riflettere sul da farsi.
Il sorriso ambiguo delle maschere lignee scavava nella profondità del suo animo, forse la sua stessa vita era stata una maschera dipinta con cui aveva affrontato lo svolgersi degli eventi ed ora si sentiva nuda di fronte ad un sentimento inspiegabile che tentava di farsi strada nella sua mente.
Improvvisamente volle con tutte le sue forze che lui fuggisse, il più lontano possibile, che fuggisse da lei e dall'orrore della sua condizione inumana, leggera e silenziosa come una gatta tornò nella stanza da letto, lo guardò a lungo, brividi di ghiaccio gli sfioravano la schiena, poi risolutamente accese il gruppo di schermi olovisivi incastonati nella testata del letto e si ritirò nuovamente nello studiolo.
Il canto d'amore wintu si levò doloroso nel silenzio della casa, lui, ne era certa, avrebbe capito, se non era troppo tardi avrebbe trovato la forza di fuggire da lei e questa volta non lo avrebbe più cercato. Ascoltò i tre canti in preda ad un crescente nervosismo, temeva di perderlo ma al tempo stesso voleva che si salvasse, che fuggisse dove lei non potesse più raggiungerlo.
I rumori giungevano ovattati pur tuttavia lo sentì alzarsi e recarsi in salotto, ascoltò il morbido e frusciante suono della copertura di velluto del quadro incompiuto e pur non riuscendo a decifrarne il suono udì i suoi sommessi e preoccupati commenti poi i passi farsi sempre più vicini fino a che lui fu di fronte a lei.
Lo guardò interrogativamente, immobile come una crisalide, eppure fremente di desiderio, la sua doppia natura in conflitto lottava tra due opposti impulsi, non poteva cedere al suo istinto, non doveva... poi sentì un torpore dentro di sè, sapeva che l'altra sè stessa avrebbe finito per prevalere e lentamente cominciò a lasciarsi assorbire dalla sua natura di mantide, sollevò gli occhi verso di lui, dischiuse la bocca ed il suono gelido ed insistente della porta di casa spezzò l'incanto.
Lui si riscosse, si girò di colpo e si avviò ad aprire all'intruso.
La voce dello stupefatto Gilberto giunse fino a lei, Roy aveva scelto il momento meno opportuno per portare le valigie ed ora lui avrebbe saputo di Mayo, di Città del Messico, di tutto... Roy era un debole non avrebbe opposto resistenza, forse era un bene che Gilberto sapesse tutto da lui, lei non sarebbe mai riuscita a rivivere quei momenti senza legarlo ancora di più a sè...
I rumori erano cessati, Gilberto si era di sicuro gettato all'inseguimento del terrorizzato Roy ed ora gli stava strappando la verità da qualche parte nell'androne del palazzo o per le scale, si alzò stancamente ed uscì sul balcone per vedere l'epilogo di quella chiarificazione.
Attese a lungo, l'aria era fresca e profumata, il cielo azzurrissimo preannunciava una giornata splendida e calda, eppure lei rabbrividiva per il gelo interiore, seguì con lo sguardo una nube che veleggiava alta nel cielo e sognò di fuggire, di volar via da sè stessa e dai suoi ricordi...
Finalmente Roy uscì dal palazzo, barcollava e sembrava agitato e terrorizzato, si fermò un'istante e girandosi la vide al balcone, fece un gesto come di scusa, poi si passò la mano sulla nuca e la mostrò a lei sporca di sangue.
Tentava di spiegare a gesti, tentava di giustificarsi, piccolo uomo patetico schiacciato in un ingranaggio senza via d'uscita, piccola pedina in una scacchiera senza fine, mosso da passioni ed istinti incomprensibili.
Lei tornò a guardare la nube nel cielo, ignorando le sue sterili ed inutili suppliche, la nube si era assottigliata e sfilacciata, preda del vento, vascello smarrito nella skyline della metropoli, affidò a lei i ricordi ed i sogni della sua incredibilmente remota fanciullezza, non era più tempo di sogni ora, le cose non sarebbero mai più tornate le stesse, la giovane Eunice di Città del Messico era morta per sempre trasformata in una fenice di morte...

Roy era scomparso alla vista ed anche Gilberto si stava allontanando dal palazzo, senza neppure voltarsi, con passo incerto, gravato dalla conoscenza di un passato troppo orribile, angosciato dalla scoperta dell'infame condanna inflitta a lei dal destino, forse avrebbe superato il dubbio e l'angoscia ed allora per lui sarebbe giunta la fine... o forse avrebbe trovato la risolutezza di ripartire subito, lontano da lei e dal suo mortale abbraccio.
Rabbrividì, aveva innescato come per gioco, guidata dall'istinto, una tragica pantomima di amore e di morte, non poteva più tirarsi indietro, non era più possibile disfare la trappola tutto era ormai fuori del suo controllo solo lui poteva tentare un'impossibile fuga ma alla fine, il loro percorso erratico si sarebbe di nuovo incrociato, ed un amplesso di morte avrebbe spento i loro sogni.
La nube si era disfatta nel cielo e vaghi cirri lievi ed inconsistenti erano ancora a tratti visibili nel cielo troppo azzurro.
Eunice si riscosse ed entrò in casa dove il telefono stava trillando con insistenza irritante. Piggiò un pulsante ed il viso di Roy comparve sullo schermo.
«Eunice volevo spiegare... io ho tentato...».
Lei interruppe la chiamata con indifferenza e lo schermo si spense con un lampo azzurrino.
Tornò nello studiolo delle maschere polinesiane a scrutare con la mente lontana quei simulacri d'eternità, tutto il dramma della psicosi era cominciato appena quindici anni prima eppure era difficile, molto difficile credere che un tempo tutto fosse stato diverso, che un tempo una donna potesse amare un uomo senza per questo doverlo uccidere...
Oh sì, non per tutte era così lei era parte di una letale minoranza, sempre più esigua di anno in anno, ma il suo universo era lei, la sua esperienza diretta era quella che aveva importanza... era preferibile credere ad una condanna globale piuttosto che accettare l'idea di essere solo una anomalia destinata a scomparire assieme alle altre sventurate vittime della sindrome.
Prese dal muro una delle maschere e con un dito ne seguì le spirali dipinte in ocra pallido sulla superficie rozzamente sbozzata, solo quindici anni... era giovanissima allora, troppo giovane, troppo ricca, troppo desiderata e troppo...
Già troppo... sapeva bene cosa era stata e cosa si nascondesse dietro l'attività di fotomodella, non si era mai posta problemi o scrupoli, allora, ora pagava la dissolutezza della giovinezza distruggendo l'unico sentimento intenso e pulito che la vita gli avesse donato...
Quindici anni... da qualche parte, chissà dove nel mondo, era successo qualcosa che aveva cambiato per sempre la vita sua e di tante altre infelici, da qualche parte, quindici anni prima...


Calore... orrore, solo grumi di notte densa. Silenzio come una manciata di cenere filtrata tra le rocce perdute. Contrazione! Sordi brontolii scagliati verso chilometri di rocce roventi... Contrazione! Pigri rollii strappati alle viscere della terra in profondi rivoli sinuosi di magma denso, gorgogliante, ribollente. Contrazione! Palpiti frementi di fango primordiale. Dardi di luce rubati all'abisso. Urlo!...

La sveglia trillò insistentemente sul comodino carico di libri universitari spaginati nel corso di un'intensa notte passata quasi in bianco nel vano tentativo di ficcare nel cervello poche inutili nozioni. Luca Rinaldi mugugnando cercò tentoni il pulsante della sveglia, ottenendo come sgradito risultato di mandarla ad infrangersi sul pavimento.
«Porca miseria, ci mancava solo questa!»
Stropicciandosi gli occhi gonfi si mise a sedere sul letto, cercò di riprendere contatto con l'indesiderata realtà e si mise a contemplare con sguardo ebete gli intestini metallici della sveglia sparsi sul pavimento.
«E adesso? Dove diavolo li trovo i soldi per comprarne un'altra? Accidenti agli esami, accidenti al vivere da solo ed accidenti a questa jellaccia infame che mi perseguita.».
S'infilò le ciabatte sbertucciate e si recò in bagno per radersi, prima di recarsi all'Università per sostenere per la terza volta Diritto Civile.
«Meglio che lascio perdere la colazione, se riesco a superare quel fottuto esame mi offro un pranzo decente, se fallisco di nuovo... vorrà dire che mi accontenterò dei soliti supplì.».
Aprì la porta del bagno e si contemplò allo specchio con esagerato spirito critico.
«Fai schifo» disse prendendo il rasoio a lama libera per cominciare il difficile compito della rasatura. Non era mai riuscito ad adattarsi ai rasoi di sicurezza, «...la rasatura è un'arte - si ripeteva spesso - mio padre si è sempre rasato in questo modo, così suo padre ed il padre di suo padre: quello che andava bene per loro deve andare bene anche per me.».
Prese la correggia di cuoio e si mise a rifare il filo alla lama, provando ogni tanto l'affilatura sull'unghia, poi soddisfatto del risultato ottenuto cominciò ad insaponarsi coscienziosamente. «Presentati sempre in ordine davanti ai professori - gli aveva detto suo padre quando due anni prima era venuto a studiare legge a Roma - loro guardano molto come uno si presenta...»
Tutte fesserie, i professori nemmeno lo guardavano, facevano due o tre domande, poi «...giovanotto si ripresenti alla prossima sessione» o nella migliore delle ipotesi «...diciotto, di più non posso darle.». Comiciò a radersi con gesti abili e sicuri, seguendo i contorni irregolari del suo brutto viso.
«Sembra tagliato con l'accetta...» gli avevano detto un giorno e lui ci era rimasto male, che colpa aveva del suo viso sgradevole e rozzo?
Finì di radersi con calma, poi si spruzzò qualche goccia di dopobarba per calmare il bruciore della pelle appena rasata e si accinse a riporre il rasoio nell'astuccio di cuoio. Fu allora che qualcosa molto lontana, sotto di lui, gridò!
Luca ansimò sconvolto da un'inspiegabile sofferenza, poi come in trance riprese il rasoio, lo aprì, lo avvicinò dalla parte della lama al collo e prese ad incidere la pelle in preda ad una morbosa frenesia, rifiutandosi di arrestare il regolare movimento della mano. Sentiva il sangue caldo scorrergli sul petto, inzuppargli la pesante maglia di lana, sentì il suo stesso rantolo gorgogliante, ma non cercò di frenare la sua mano impazzita, anzi aumentò la pressione sino a sgozzarsi come un cappone per il pranzo di natale.
«Glu, glu, gl...uuuu»

La padrona della pensione, un'anziana ed obesa vedova di sessant'anni guardò la pendola rintoccare le otto.
«Strano - pensò - ancora non esce dal bagno, se non si decide finirà per arrivare tardi in facoltà».
Si diresse quindi borbottando verso il corridoio per richiamare il suo ospite sulla necessità di affrettarsi un pò di più. «Signorino?» fece bussando alla porta «È tardi sono già le otto!»
Silenzio. «Ohè siete sordo? È tardi!» Silenzio.
«Ma a casa vostra un pò di educazione non ve l'hanno data? Potreste pure rispondere, o no?»
Attese un minuto, poi tornò alla carica «Vi sentite male? Rispondete!» Silenzio.
Allora pose una mano sulla maniglia e spalancò la porta guardando all'interno...

Il cielo scuriva a poco a poco, il sole era tramontato da alcuni minuti, Eunice era rimasta lì per ore forse in attesa, forse a metà strada tra coscienza e torpore, continuò a guardare la sera, rannicchiata in una poltrona, in preda ad una inspiegabile apatia. Ripensò alla telefonata di Roy con un vago senso di fastidio, detestava quell'uomo anche se tante volte, troppe forse, si era servita di lui per trovare la persona sognata...
Quando poche ore prima aveva suonato spezzando l'incanto che si era creato tra lei e Gilberto, lo aveva odiato con tutte le sue forze, eppure sentiva in cuor suo che una spiegazione era necessaria, Gilberto doveva sapere e lei avrebbe dovuto trovare le parole. Ora era troppo tardi Gilberto era fuggito, lasciando le valigie lì, fuggito per riflettere chissà dove sul da farsi, forse sarebbe tornato o forse no, dipendeva solo da lui...
Roy al telefono era apparso turbato ed angosciato, il colletto della sua camicia era ancora incrostato di sangue, di sicuro non aveva passato momenti molto piacevoli quando Gilberto lo aveva agguantato ed altrettanto sicuramente aveva raccontato tutto quello che sapeva o che solo sospettava, in fondo era solo un debole, uno sconfitto, succube prima del suo pubblico e della popolarità e poi di lei stessa che lo aveva mandato per anni in giro per il mondo in cerca di un fantasma.
Sempre acquiescente e sempre troppo obbediente alle sue nuove richieste, lo detestava dai tempi di Città del Messico forse perche lui era là quando lei era cambiata, perchè lui sapeva...
Il cielo era buio ormai, Eunice si rannicchiò nella poltrona lasciandosi a poco a poco sprofondare in un sonno comatoso, in un torpore senza sogni, in un grigio nulla il cui unico suono era un sordo ansare lontano ed indecifrabile che sembrava provenire dal centro stesso della terra...

Al Woomera c'era silenzio, i pochi pensionati avevano cenato e Roy ora si dava gli ultimi ritocchi alla medicazione alla nuca.
Rayna vedendolo tornare in quelle condizioni ne era rimasta sconvolta ma nonostante le sue implorazioni non aveva ottenuto risposta, Roy in modo apatico, distante, aveva troncato il discorso e si era ritirato nello studio, aveva saltato pranzo e cena ed era rimasto per lungo tempo a riflettere, dopo che Eunice aveva troncato la conversazione senza neppure dargli il tempo di spiegarsi. Eunice di lui non sapeva che farsene, anzi, molto probabilmente lui era un peso per lei, forse perchè conosceva troppe cose del suo passato.
Forse era meglio così in fondo i primi anni di matrimonio con Rayna erano stati molto piacevoli senza l'ombra malsana della presenza di Eunice, eppure non appena lei era ricomparsa sulla scena, il suo tranquillo menage familiare si era rivelato più inconsistente di una bolla di sapone. Rayna non aveva fatto nulla per intervenire e lui si sentiva colpevole del suicidio di tante sventurate vittime del fascino morboso della donna mantide.
Ora era tutto finito, eppure non si sentiva liberato da un peso ma oppresso dalla mancanza di quel peso. Forse amava anche lui Eunice, forse l'incidente della mattinata gli aveva dato modo di riflettere sui suoi sentimenti da tempo soffocati.
Rayna era l'intrusa, ora lo sapeva.
Uscì dal bagno e si recò in camera da letto.
Rayna dormiva, ma il suo sonno era agitato a tratti rotto da piccoli singhiozzi soffocati, la guardò con indifferenza scuotendo la testa, poi prese un cuscino e lo pose sul viso di lei, con delicatezza e con decisione.
Lei si dibattè dapprima debolmente, poi con più vigore, scalciava disperatamente mugolando, con le mani cercava di colpirlo, di artigliarlo, lui aumentò la pressione con indifferente apatia.
Lei inarcava il dorso, gonfiando il petto, poi a poco a poco la sua reazione divenne più debole, cessò di opporre resistenza e le sue braccia ricaddero inerti.
Roy tolse il cuscino, gli occhi di Rayna erano sbarrati, un filo di saliva le colava da un lato della bocca, ma il suo cuore aveva cessato di battere.
Le chiuse gli occhi con una mano, la ricompose sul letto e tornò in bagno, con lenta e studiata determinazione riempì la vasca di acqua calda prese un rasoio e si aprì le vene dei polsi, poi si immerse nel liquido caldo ad aspettare la notte senza sogni.
Eunice non aveva più bisogno di lui.
L'acqua calda facilitava l'uscita del sangue e presto il liquido divenne rossiccio, il sangue usciva a piccoli zampilli, come fiori dai petali color carminio, si dissolveva e sfumava nell'acqua che sempre più assumeva un intenso colore di morte.
Eunice non aveva più bisogno di lui.
Povera Rayna, lo aveva amato e raccolto sconfitto e spezzato nel fisico, lo aveva accudito senza mai un rimpianto od un lamento, non l'aveva mai veramente amata, si era solo lasciato amare, poichè la sua mente era rimasta imprigionata in quell'unico terribile istante in cui era volato fuori di strada, dopo di allora l'incidente era tornato e ritornato nella mente e nei sogni e la quieta presenza di Rayna non aveva cancellato l'incubo.
Eunice, ora ne era certo, avrebbe potuto amarlo.
Si sentiva debole, senza più forze, non riusciva quasi a tenere gli occhi aperti, non aveva la forza di sollevare le braccia, stava bene così nell'acqua calda color rosso cupo, come in un liquido amniotico, a fatica rannicchiò le gambe in posizione fetale cingendole con le braccia e si lasciò scivolare nel caldo brodo di morte.
Eunice ora aveva la persona che tanto aveva cercato, poichè ne era certo, Gilberto sarebbe tornato a lei, era inevitabile...
Come un'Ofelia morente il suo viso sotto il velo dell'acqua fissava ad occhi sbarrati la luce lontana del soffitto del bagno, il ronzio nelle orecchie martellante e confuso nascondeva un suono in sottofondo, un sordo brontolio che sembrava provenire da molto lontano, poi a poco a poco Roy cessò di udirlo...

Era mattino e da qualche parte in Londra un taxi correva per le strade quasi deserte per portare il suo viaggiatore verso uno strano ed indecifrabile destino.
Gilberto tornava da lei. Indifferente a quella che poteva essere la conclusione della sua relazione con Eunice.
Guardava fuori del finestrino una nuvola sfilacciata vagare sulla riva destra del Tamigi e per solo un'istante la vide come un bianco presagio di vita nella morte.
Accettava il pericolo e lo sfidava non potendo ormai rinunciare al miraggio dell'abbraccio di lei.

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Questo capitolo, scritto nel maggio 1995, si basa su appunti del 79 non inclusi nell'originaria stesura.

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